Enrico Micheli, un grande professionista dell’autismo, citava Ignac Semmelweis, medico ungherese, che nel 1861 comprese che per salvare migliaia di donne dalla febbre puerperale bastava che il medico si lavasse le mani con cloruro di calcio. Micheli diceva che prima di Semmelweis l’ignoranza era lecita, dopo no! Oggi abbiamo una letteratura “forte” sull’autismo, che non possiamo ignorare. Fino agli anni ’80 non esisteva praticamente una produzione scientifica sull’autismo, ma a partire dagli anni ’80 la ricerca sperimentale sull’autismo ha avuto un incredibile impulso.
L’autismo, oggi, non può essere più concepito come una “malattia infantile rara”.
Innanzi tutto, l’autismo non è “raro”, poiché riguarda una persona su 68, secondo le statistiche più attendibili.
Secondo punto, l’autismo non è un problema “infantile”: esordisce nell’infanzia, ma perdura in età adulta, perché è una caratteristica della persona. Poiché sappiamo questo, dovremmo smettere di occuparci solo dei bambini, e solo fino a quando sono bambini, e cominciare a pensarli adulti. Solo pensandoli adulti, potremo preparare un posto da adulti per loro nel mondo.
Terzo punto, l’autismo non è per forza una patologia. Sappiamo che ci sono persone che “pensano” in maniera autistica, in maniera “neurodiversa”, che non hanno un deficit intellettivo, ma solo un modo diverso dalla maggioranza, di percepire il mondo. Spesso nell’impatto con una scuola organizzata per gli altri 67 è “pensato” da una maggioranza di persone “neurotipiche”, i nostri bambini e ragazzi non ce la fanno, anche quando sono “intelligenti e verbali”.